il manifesto - giovedì 13 novembre 1997

Un dio femmina tra botanica e pornografia

di Filippo La Porta

“Penetrare sessualmente il cielo...”. In questa frase, tratta dall'opera prima di Andrea Marcelli (Il dio femmina stuprato nel bosco), si riassume la filosofia estrema, "carnevalesca" del romanzo: teologia e pornografia, misticismo e vernacolo, botanica e sessuologia, mitologia antica e politica contemporanea. La trama fittissima, straripante di personaggi e storie, sembra davvero appagare la nostra fame arretrata di narratività, in tempi di aridi minimalismi e di pensose, asfittiche autobiografie. Né avrebbe senso riassumerla, tanti sono i colpi di scena, le agnizioni, gli aforismi, le digressioni, i frammenti saggistici di cui è disseminata. Basterà ricordare che vi si narra di come Giacomo Canto, figlio di Ur, dio vegetale femmina (o del mite guru Silvano, utopista e mistico dei boschi) e di una povera donna bigotta e ninfomane, affetto da una malattia rarissima, la "fitofilia" (si unisce agli alberi, preferibilmente castagni) diventò primo ministro, anche grazie all'educazione del professor Veritier, ormai centenario, che vive a Mantova con una governante "ancora soda e tenace" (di cui è stato il primo uomo). E effettivamente il vecchio professore ebreo, la cui storia si perde nei pogrom antisemiti della Russia bolscevica, con la sua teologia del piacere anale e la sua voracità sessuale, è il personaggio più vivo del romanzo. Di qui poi una lunga catena di accoppiamenti sessuali, orgasmi, racconti mitici, minitrattati sull'eros (con la riproposizione assai persuasiva di quel Dio-femmina già caro a Papa Luciani...), di commenti ai classici e alle Sacre Scritture. Con questo libro l'editore Fazi inaugura una collana di autori italiani esordienti, che oggi è come avventurarsi, senza molte bussole, in un oceano testuale sterminato, che ricopre l'intera penisola, fatto di migliaia e migliaia di dattiloscritti proposti quotidianamente a case editrici, riviste, premi letterari, etc. La scelta del romanzo di Marcelli, che può esibire una insolita carica affabulatoria ma che presenta alcuni difetti d'insieme non trascurabili, ha il pregio di delineare subito una precisa fisionomia della collana, abbastanza in linea con il già nutrito catalogo del giovane editore. Eleganza, gusto della classicità stravagante, cultura raffinata. Orazio, Dante, Shakespeare, la Bibbia..., esoterismo e mistica ebraica, sadomaso e astrologia, zingari e creature invisibili, e ancora medicina, genetica, zoologia, linguistica... A volte sembra di star leggendo un romanzo tipicamente Adelphi: ricordiamo in proposito quell'esordio di Paolo Maurensig (anche lì come in Marcelli perfino i nazisti!), che appariva come un insuperabile spot pubblicitario dell'editore (che non sia la casa editrice di Calasso la segreta aspirazione dell'austero e squisito Fazi?). Fuor di battuta, Il dio femmina stuprato nel bosco si presenta come un romanzo ambizioso, in cui molte e diverse suggestioni sono frullate vorticosamente, ma con una certa inerzia e mancanza di ironia nella costruzione. Gli si riconosce volentieri una generosità di racconto, una lingua educatissima, una precisione nei riferimenti scientifici (l'autore è medico). Ma per questo genere di romanzo, di vivace mescolamento di alto e basso, tradizione colta e Kitsch (pensiamo al Quinto elemento di Luc Besson: anche lì si celebra la Vita!) occorreva più verve e umorismo. Possiamo anche scrivere che "il sole era alla suprema culminazione" (un neologismo da prosa un po' ricercata) e poi parlare dell'"organo a canna della voluttà" (espressione quasi da rivista trash), ma forse ci si dovrebbe divertire di più a farlo. Mentre l'autore in più di un'occasione si sforza di essere lieve e spiritoso ma senza risultato, come quando Veritier si avvicina, eccitatissimo, all'oggetto del desiderio "a passi felpati, da predatore della savana". Alla fine in questo bosco rigoglioso e vagamente adelphiano troviamo un eccesso di aromi, e una intenzione troppo seriosa.


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