IL SOLE 24 ORE - domenica 23 Novembre 1997

Torna talvolta il piacere di raccontare

di Ermanno Paccagnini

È accaduto non di rado, in questi anni, di sottolineare come la produzione creativa italiana sia stata caratterizzata da scritture più che da narrazioni, e come sia stato sempre più spesso marginalizzato quello che Arpino amava definire il "raccontatore di storie". Il discorso non vale tanto per le generazioni precedenti, che sanno comunque ancora esprimere delle fedeltà (penso a un Tomizza, per esempio); quanto per le più prossime a noi, anche se a loro volta in grado di esprimere talenti in tal senso, come si può verificare con le affabulazioni pur non sempre adeguatamente registrate (peraltro: per eccesso di narratività) di un Maggiani. Insomma: per anni i giovani si sono spesso trovati a proporre scavi interiori (personali, di gruppo, generazionali), che cercavano di rivivere in forza di scrittura. Una dimensione che negli ultimi tempi mi pare subire un significativo mutamento di rotta: nel senso del recupero del piacere di raccontare, anche se poi l’oggetto del racconto piacevole e tranquillizzante non è, dato che le preferenze di tale narratività poggiano sulla "narrazione di genere", come il giallo, il noir, la fantascienza e così via.

Non esclusivamente, però. E lo evidenzia l’esordio di Stefano Marcelli (classe 1958) con Il dio femmina stuprato nel bosco), un romanzo in cui il lettore coglie subito la vena dell’autore e il suo piacere di raccontare. Non tutto funziona ovviamente, e anzi diverse componenti restano irrisolte; ma si registra una qualità: ossia che Marcelli possiede il polso del narratore. Le componenti che si intrecciano nel libro sono diverse e varie: dall’ebraismo alla psicanoalisi, al fantastico, al romanzo di formazione vissuto nella componente memoriale, che si coagulano nel flash-back che una pagina di giornale con la notizia dell’elezione per unanime volontà popolare del nuovo premier, Giacomo Canto, attiva nel vecchio psicanalista Abramo Veritier. Il lettore si trova a rivivere così, nell’atmosfera dell’Italia di oggi accennata sullo sfondo, la storia d’una duplice "malattia": la fitofilia del piccolo Giacomo, figlio della ninfomane Virginia e di Silvano, dio dei boschi (si badi al gioco dei nomi), e della sua gioia insieme bizzarra e favolistica nel congiungersi con gli alberi; e il dramma della conoscenza che investe Abramo, che si esplicita in dichiarazioni pubbliche sul sesso femminile di Dio, così come si secreta nelle private riflessioni e indagini sul magico mondo arboreo retto da Ur, popolato da esseri fantastici, in cui vuole entrare con la forza.

Un romanzo di pochi personaggi (ai ricordati va aggiunto quello simpaticamente vitale della governante), che quando si abbandona al gusto del narrare scorre fluidamente e tiene avvinto il lettore. Va riconosciuto infatti a Marcelli il possesso non solo del ritmo del racconto, ma anche di quello della frase, della prosa. Che però conosce momenti di freno, specie quando l’autore, medico, rompe l’equilibrio instauratosi tra professione e narrazione e cede a momenti esplicativi (pp. 14-15); ad altri più "tecnici" (i capitoli 6 e 7, da scorciare; e anche 8, dove un po’ "si pianta"); o anche da semplici postille (pp. 98, 141, 147, 163); così come chiede di essere meglio chiarita la peraltro delicata intrusione del narratore che s’affaccia a "dire la sua" (funziona bene invece il flash-back delle origini familiari). Un peccato: perché la conquista delle ragioni del vivere del professor Veritier viene poi sviluppata in un racconto di pregevole ariosità.


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